Venom – “Welcome To Hell” (1981)

Artist: Venom
Title: Welcome To Hell
Label: Neat Records
Year: 1981
Genre: Speed/Black Metal
Country: Inghilterra

Tracklist:
1. “Sons Of Satan”
2. “Welcome To Hell”
3. “Schizo”
4. “Mayhem With Mercy”
5. “Poison”
6. “Live Like An Angel (Die Like A Devil)”
7. “Witching Hour”
8. “One Thousand Days In Sodom”
9. “Angel Dust”
10. “In League With Satan”
11. “Red Light Fever”

“Ladies and gentlemen, from the very depths of Hell…”

La data è all’incirca la seconda metà dell’estate 2008, mentre il luogo è un luccicante mediastore ubicato nel centro storico di una città medio-grande come ce ne sono tante in giro. In uno di questi fast food dell’arte su formato fisico, poi soppiantati dallo stesso ciclo consumista che li ha portati ad esistere allora e sopravvivere oggi giusto in stazioni e centri commerciali, un ragazzotto di scarsa esperienza e scarsissime pretese sta cercando quanto più materiale possibile abbia stampato sopra il logo di Metallica, Iron Maiden e di tutte quelle poche altre icone che un marmocchio di dieci anni appena può sentire un minimo sue senza sembrare ridicolo. La scelta non è proprio ampissima e i prezzi sono quelli che sono, ma proprio mentre si fa strada la malsana idea di cedere ai super sconti applicati dal negozio per liberarsi delle copie in eccesso di “ReLoad” e “Dance Of Death”, ecco che dagli scaffali ricolmi di opere mai sentite nominare prima spunta un’immagine dalla quale, per lo meno a quell’età, è davvero difficile non restare un minimo incuriositi. L’epilogo è dei più classici: attirato dalla sinistra fama che ne circonda gli ignoti autori e da una combo titolo-copertina la quale gli promette tutto ciò per cui ha iniziato ad interessarsi a questa musica, il moccioso va per la prima volta a scatola chiusa mettendo così le mani su qualcosa il cui significato non poteva certo essere alla sua portata ai tempi, e forse non lo è nemmeno in questo momento.

Il logo della band

“…All Hell is breaking loose!”

La cosa peggiore in assoluto che possa capitare ad un classico è l’essere dato per scontato; il venire mano a mano ridimensionato se non sminuito di fronte a chi ha avuto il senza dubbio lodevole merito di portare oltre ciò che l’opera in questione aveva tuttavia già sdoganato nell’immaginario collettivo. Si tratta di un’usanza per fortuna rara e limitata ad ambiti molto specifici della cultura popolare, ma vien da sé che quando nel 2021, dopo quarant’anni lungo i quali tutto ciò che “Welcome To Hell” ha messo sul tavolo è stato eretto ad irrinunciabile simulacro da un’incalcolabile fetta di musica alternativa, tocca sentire da gente con capelli corti, occhiali da vista e maglietta dei The Dillinger Escape Plan che i Venom sono stati il classico gruppo di buoni a niente capitati al momento giusto, durati un biennio scarso per poi sguazzare nell’irrilevanza mentre Bathory e Slayer li sorpassavano su tutta la linea, sembra chiaro allora che qualcosa sia andato davvero storto; perché se nell’in apparenza dissoluta età moderna un pentacolo usato come biglietto da visita passa sotto gli occhi nemmeno fosse la cosa più naturale al mondo, la situazione è del tutto diversa all’alba dei gloriosi Eighties, quando una lametta di acciaio britannico campeggia nelle classifiche aprendo la strada, spianata dalle hit “Breaking The Law” e “Living After Midnight”, verso un riscontro popolare inimmaginabile per il subalterno movimento N.W.O.B.H.M. partito dai pub delle periferie operaie già soffocate dal thatcherismo. Mentre dunque Judas Priest e Saxon continuano a sfornare singoli di altissimo profilo e i Def Leppard iniziano la loro campagna di conquista del mercato americano, nella turbolenta Newcastle tre hooligan prestati alle sette note rigettano tale imborghesimento e rispondono, dopo una serie di esibizioni a base di eccessi scenici e volumi improbabili, con un debut che è punto fermo su cosa buona parte del Metal rappresenterà non solo nelle sue varianti sonicamente più estreme da lì in avanti, tanto nell’effettiva proposta quanto nel realmente rivoluzionario bagaglio tematico. Si potrebbe del resto parlare dello shock value di Alice Cooper, o della connessione tra strumentista e personaggio dei Kiss e dei sottotesti esoterici dei Black Sabbath come di sicuri precedenti concettuali: ma quella che i Venom mettono in moto è tuttavia la cesura tra una sensibilità moderna ed una contemporanea, nella quale la creazione di un alter ego per chi suona passa per forza attraverso pseudonimi enigmatici – e soprattutto che Satana in persona non è più qualcosa da temere come fu per i fab four di Birmingham né da venerare in complessi riti come fatto dalle meteore nere Black Widow e Coven. Con piglio dissacrante e dannatamente Punk verso tali rimasugli delle fascinazioni occulte nell’Inghilterra dei ‘60/’70, Cronos, Mantas ed Abaddon celebrano il Male fine a sé stesso ed affascinante proprio per l’assenza di autentiche motivazioni o di regole, quella vocina interiore che si nutre delle raccomandazioni di genitori ed insegnanti e ci bisbiglia su quanto invece siano belli il sesso a pagamento (“Red Light Fever”), le sostanze illecite (“Angel Dust”) ed il Rock & Roll di Chuck Berry e Little Richards, unici dèi a cui vendere l’anima appena un anno dopo.

La band

“Home taping is killing music: so are Venom.”

Seppure a “Welcome To Hell” spetti la riconoscenza eterna anche soltanto per l’aver scardinato tutto lo stantìo impianto esoterico figlio dell’epoca hippie (in questo, discendente diretto dei “Paranoid” e “Master Of Reality” editi un decennio prima), la sua importanza iconografica e cronologica non ha mai potuto metterne in ombra i magnifici dieci pezzi più break, un elettroshock di quaranta minuti che quattro decenni fa travolge ogni preconcetto sul genere ed oggi non può in alcun modo essere replicato, né da chi partì dalle malefatte sonore del power trio per conquistare nuovi terreni né tantomeno da chi si limita a ricalcarne lo stile ora che ciò porta consensi entusiasti invece delle pernacchie riservate illo tempore ai pionieri albionici. E proprio a proposito di copie, derubricare i Venom a semplice rifacimento a tinte luciferine dei sacri Motörhead non è solamente un insulto alla band di Lemmy Kilmister, in tale maniera altrettanto confinata al banale stereotipo casinista con buona pace della sua incompresa sensibilità artistica, ma pure la ridicola negazione di quali diabolici prodigi “Welcome To Hell” celasse in una tracklist d’impeccabile quanto assortita malignità; pochissime canzoni, persino tra quelle vergate dall’istituzione connazionale fresca del mitologico “Ace Of Spades”, potevano permettersi di rivaleggiare ad esempio col riffing bastardo di “Schizo” o l’esplosivo ritornello di “Poison”, episodi scandalosamente poco citati e tuttavia traccianti il solco del Black & Roll ancora adesso privo di interpreti dalla pari autenticità, ammutoliti subito dopo dall’irresistibile ritmo (e dal pestifero stacco sulla sei corde di Mantas che fa il paio con le assillanti vocals) di un twist ballato tra le fiamme dell’Inferno e dedicato a chi vive da angelo per poi morire da demonio.
Poi, però, ci sono i classici, quelli che ogni cultore degno di stima ha nel proprio rosario di brani totem: c’è il martellante incedere della title-track, lineare ai limiti dello scolastico eppure carico di una spaventosa tensione accumulata dalla batteria di Abaddon a partire dal secondo minuto e detonata nella tellurica ripartenza verso l’Abisso; e c’è quella “Witching Hour” la quale, prima di essere l’atto di nascita ufficiale del Thrash Metal, è il trionfo del chitarrista fondatore ottenuto a suon di pennate rivoluzionarie ed un assolo basilare divenuto ormai leggenda, in un mosaico mefistofelico da cui a milioni hanno in qualche modo attinto – fossero gli Accept della storica “Fast As A Shark” oppure i Discharge in buona parte del capolavoro “Hear Nothing, See Nothing, Say Nothing” (giusto per mantenersi nell’arco di dodici mesi, e tralasciando così il bending conclusivo omaggiato su “Angel Of Death” da un altro biondissimo axeman). E prima che “Red Light Fever” chiuda nell’unico modo consono, col bulldozer a quattro corde e la rumoristica chitarra accartocciatisi dopo lo schianto finale sotto la guida dall’insano ringhio di Cronos, sono i tamburi di guerra del manifesto “In League With Satan” ad inaugurare una nuova era nella quale le irrazionali fobie dell’opinione pubblica (l’incipit che cavalca orgoglioso lo spauracchio dei vinili suonati al contrario) sono pura realtà, ed il Rock & Roll ritorna ad essere la musica del Diavolo.

“Dear Venom, fuck off.”

Così niente meno che EMI Music, la stessa che col best-seller “The Number Of The Beast” trarrà profitto dall’ossessione demoniaca che contagerà di lì a poco la tranquilla borghesia occidentale, aveva risposto ad un demo inviato in precedenza dall’ensemble inglese. Difficile dar loro totale torto vista la febbre dell’oro dilagante nel panorama U.K., ma d’altra parte una reazione del genere evidenzia come l’operato dei Venom abbia sconvolto le coscienze ancor prima del necessario con un effettivamente disturbante contenuto sonoro, e solo in seguito con la paccottiglia satanica di corredo a show e pubblicazioni varie. La differenziazione tra questi due aspetti comunque parimenti rilevanti -il primo ignorato da qualunque detrattore, mentre il secondo ridotto a misera tattica per far girare il monicker– è in realtà la vera lezione impartita da Cronos, Mantas ed Abaddon ad una scena che, di fronte a prospettive di guadagno in ascesa, iniziava a puntare troppo in alto rispetto alle proprie radici; prendere sempre sul serio ciò che fai ma mai il modo in cui lo fai, e se per riportare un minimo di onestà nel grottesco party milionario organizzato nei villoni californiani di Kiss e Van Halen tocca imbucarsi ed andare in giro a spingere gli invitati in piscina deridendone il fragile status, allora così sia.
Da questo imperativo è venuto fuori fumante “Welcome To Hell”, disco appunto fondamentale nell’attuale concezione estetica dell’estremo ma che, se oggi continua ad essere tributato da generazioni di musicisti e semplici appassionati, è perché contiene alcuni dei più bei momenti regalatici dal genere nei suoi dieci lustri di esistenza. Tra seguiti di carriera non all’altezza (per chi scrive, persino già dall’amatissimo e giustamente fondamentale sequel datato 1982) e faide di rara acredine persino nel disfunzionale mondo Metal, i Venom tirano dritto sotto molteplici forme suonando quello che loro stessi hanno creato, e soprattutto sapendo bene cosa significa il loro nome per chi ha davvero il cuore immerso nell’oscurità; e se qualche cultore del Black Metal adulto e studiato ha da ridire in merito, non è certo un problema di questi gentiluomini.

“Our music is Power Metal, Black Metal, Venom Metal; not Heavy Metal, ‘cause that’s for the chicks.”

Michele “Ordog” Finelli

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